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lunedì 12 ottobre 2015

AVVISO ANNO SCOLASTICO 2015/2016



TRASFERIMENTO DELLE ATTIVITA' IN ALTRO BLOG


AVVISO)
CARI RAGAZZI DI QUARTA E QUINTA CLASSE
QUESTO BLOG
 da quest'anno scolastico (2015-2016) è da sfogliare a ritroso, per trovare argomenti prima di V classe e poi di IV classe (post più vecchi).
 
UTILIZZERETE QUESTO BLOG SOLO PER GLI 
 
NELL'ANNO SCOLASTICO 2015/2016
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PER LA CLASSE IVB: http://dalpensieroalleparole.blogspot.it/
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martedì 16 giugno 2015

PAESI NON ALLINEATI

 
Il 7 marzo 1945, nasce la Jugoslavia di Tito, il maresciallo non allineato.
 
Nei suoi 35 anni al potere, Josip Broz, ha tenuto insieme col pugno di ferro la ex Jugoslavia, facendone lo Stato chiave nel teso confronto tra blocco sovietico e occidentale, opponendosi a Stalin che avrebbe voluto «cancellarlo con il mignolo», e riuscendo a porsi come interlocutore dei leader di tutto il mondo, unico tra i capi di Stato sovietici, tanto che al suo funerale si ritroveranno tre re, ventuno capi di Stato e sedici primi ministri. Oltre il trionfalismo, il culto della personalità e l’illusione di un modello socialista democratico, resta ormai ben documentata la sua responsabilità nei crimini contro nemici, oppositori e civili innocenti, tra cui i tanti italiani spariti nelle foibe o cacciati dalle loro terre istriane e dalmate. La parabola di Tito al vertice della Jugoslavia ha inizio il 7 marzo del 1945, quando il primo governo provvisorio della Democrazia federale di Jugoslavia si riunisce a Belgrado sotto la sua guida, vittorioso sugli occupanti tedeschi, sui cetnici, i partigiani monarchici del generale Drazha Mihailovic e il governo di re Pietro II in esilio a Londra. Fino al 1980 Tito terrà unito il Paese e proporrà agli occhi del mondo una seconda via al comunismo, diversa da quella di Mosca, ma ugualmente destinata a sgretolarsi nell’arco di un decennio (Getty Images/Hulton Archive).

martedì 2 giugno 2015

LA POESIA DEL NOVECENTO

 
Decadentismo in senso storico indica la cultura di un periodo (dal 1870 al I dopoguerra) di profonda crisi della società nel quadro storico-politico (lo sviluppo dell'industrializzazione e del capitalismo accentua la lotta per la conquista dei mercati e delle fonti delle materie prime - imperialismo, colonialismo - e si assiste ad un inasprimento dei conflitti sociali - lotte operaie, marxismo - e ad un ricorso a regimi reazionari) e filosofico-letterario (profonda crisi del positivismo causata dall'insorgere di ideali antidemocratici e nazionalisti contrastanti a quelli socialisti e di giustizia sociale che, in alcune interpretazioni si accompagnavano al positivismo stesso).
Di qui, l'affermarsi o il rifluire di correnti idealistiche e spiritualistiche e il diffondersi di atteggiamenti culturali diversi e opposti ma accumunati dal rifiuto della ragione:
   - superomismo;
   - attivismo;
   - pragmatismo;
   - misticismo panico;
   - mito dell'infanzia;
   - estetismo;
   - intuizionismo.
Il Decadentismo come movimento artistico-letterario nasce in Francia intorno al 1880, contemporaneamente all'affermarsi del positivismo, e ha origine dal rifiuto della realtà politica creatasi con la repressione della Comune e con l'avvento di una società mediocre, conformista e piccolo-borghese.
Emerge in queste circostanze un atteggiamento tipico dei decadenti: quello del ribelle che aspira a spezzare ogni convenzione sociale (e quindi artistica) e che è proteso verso nuove dimensioni della realtà. Il termine "decadente" fu inizialmente usato in senso spregiativo dai critici per indicare un gruppo di poeti ribelli alla rigida disciplina parnassiana, che vengono disarticolando i versi e la sintassi e si esprimono secondo un sistema di segni e di evidenze intollerabile al volgo dei lettori; successivamente il termine è assunto dai poeti stessi per affermare la loro diversità integrale rispetto al gregge dell'uomo comune.

Il precursore del movimento (come per il Simbolismo) è Baudelaire, il quale rifiuta i temi cari ai romantici (descrizioni, rievocazioni storiche, esaltazione dei valori tradizionali); fissa lo sguardo sull'uomo moderno, scopre i sentimenti più complicati e inconsueti; respinge la poesia descrittiva, didattica, passionale: tende a trasfigurare la realtà, anche la meno nobile, in immagini di pura bellezza, ad elevarsi sulla realtà in purità di canto; e nelle composizioni della maturità, egli si rivolge non alla realtà sensibile ma a quel che è al di là della sensibilità e dell'intelligenza, all'io profondo: mira cioè a fare della poesia un mezzo di conoscenza metafisica. Per attuare questo suo disegno ricorre alla suggestione musicale e al simbolismo dell'immagine, ad immagini-simbolo che evochino le segrete analogie delle cose, i misteriosi rapporti che creano la tenebrosa e profonda unità dell'universo: apre cioè la via al Simbolismo.

Mentre sembrano molto sottili le differenze tra Decadentismo e Simbolismo, quelli relative al Romanticismo appaiono più nette: se l'io romantico era un "io" che avvertiva il rapporto organico con gli altri uomini, in una società solidale, un "io" le cui fondamentali componenti erano la ragione e il sentimento, l'io decadente è un io-senso che si fonde con la vita della natura: un io-istinto che si afferma nella sua volontà di potenza, come superuomo, novello creatore di valori nei quali s'incarna il suo egoistico capriccio; un io che avverte la realtà più vera dell'uomo al di là del reale, nelle forze che sfuggono alla ragione e ai sensi.

Già con la Scapigliatura in Italia si esprimeva l'esigenza di rottura nei confronti della tradizione ottocentesca: Fogazzaro, Pascoli (mito dell'infanzia e dell'inconscio), D'Annunzio (estetismo, superomismo, panismo, nazionalismo), i Crepuscolari (gusto malinconico e ironico delle piccole cose), i Futuristi (attivismo e nazionalismo), i Vociani (intuizione della "poesia pura"), Svevo e Pirandello (denuncia di una condizione umana di alienazione, di solitudine e di angoscia), gli Ermetici.

Nel '900 comincia ad emergere il bisogno di un'analisi più razionale della realtà. Si offriranno all'uomo nuovi percorsi di conoscenza tracciati dalle rivoluzionarie scoperte della psicoanalisi di Freud e della fisica di Einstein; l'intellettuale dovrà misurarsi con questa nuova realtà: alla fase della "crisi" succede nella civiltà decadente la fase della "coscienza" e all'irrazionalismo s'intreccia una rinnovata razionalità.

sabato 30 maggio 2015

L'ITALIA REPUBBLICANA

DALL' E-BOOK ZANICHELLI: SECONDO DOPOGUERRA


 
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile, giorno della liberazione di Milano e Torino. La scelta venne fissata in modo definitivo con la legge n. 260 del maggio 1949, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, come le domeniche, il primo maggio o il giorno di Natale, in quanto “anniversario della liberazione”.

Il 25 aprile non è la festa della Repubblica italiana, che si celebra invece il 2 giugno (per alcuni anni, dal 1977 al 2001, fu trasformata in una festa mobile, la prima domenica di giugno): con riferimento al 2 giugno 1946, giorno in cui gli italiani votarono al referendum per scegliere tra forma di governo monarchica e repubblicana nel nuovo stato.

Anche altri paesi europei ricordano la fine dall’occupazione straniera durante la Seconda guerra mondiale: Olanda e Danimarca la festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8 maggio, la Romania il 23 agosto. Anche l’Etiopia festeggia il 5 maggio la festa della Liberazione, anche se in quel caso si tratta della fine dell’occupazione italiana (avvenuta nel 1941).
 

LA GUERRA FREDDA



 

 

Per GUERRA FREDDA si intende il confronto mondiale tra Stati Uniti e Unione Sovietica iniziato nel secondo dopoguerra. L'espressione (in ingl. cold war) fu coniata dal giornalista americano W. Lippmann (1889-1974) per descrivere un'ostilità che non sembrava più risolvibile attraverso una guerra frontale tra le due superpotenze, dato il pericolo per la sopravvivenza dell'umanità rappresentato da un eventuale ricorso alle armi nucleari. Tale lotta per il controllo del mondo conobbe diverse fasi, caratterizzate anche da gravi tensioni (crisi missilistica di Cuba, 1962) e guerre 'calde', come quelle in Corea (1950-53) e in Vietnam (conclusa nel 1975); non mancarono, comunque, lunghi periodi di relativa stabilità del quadro internazionale che condussero nel corso degli anni Ottanta alla distensione nelle relazioni tra le due superpotenze. Il bipolarismo, ossia questo sistema fondato sulla contrapposizione dei due blocchi, paesi occidentali da un lato e paesi orientali dominati dai regimi comunisti dall'altro, si concluse simbolicamente con la caduta del muro di Berlino (1989) e lo scioglimento dell'URSS (1991).

SE QUESTO E' UN UOMO - POESIA

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case

Questa poesia costituisce la Prefazione di “Se questo è un uomo”.
Essa riassume in sé il contenuto del libro stesso e la sua funzione di testimonianza e di ammonimento per le generazioni future.

Se questo è un uomo

“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1)

L'opera memorialistica “Se questo è un uomo” di Primo Levi è il romanzo in cui l’autore racconta la sua esperienza nei campi di concentramento, durante la Seconda Guerra Mondiale. Sottratto alla sua vita quotidiana, Primo Levi viene condotto in questo luogo di morte, costruito per annientare la dignità umana.

Il lager nazista è pensato appositamente per trasformare gli uomini in vere e proprie bestie, costretti a lottare gli uni contro gli altri per la sopravvivenza. I suoi abitanti sono obbligati ai lavori forzati, denutriti e privati persino del nome, spogliati di qualsiasi bene e divisi dalle proprie famiglie.

(leggi, nella tua antologia, il capitolo, intitolato "Sul fondo")

La vita nel lager è descritta come una realtà incredibilmente alienante, in cui gli uomini e le donne subivano ogni tipo di sopruso. Torturati, costretti a soffrire ogni tipo di dolore, da quello fisico a quello mentale e morale, sempre più massacrante, le persone si trascinano nel campo di concentramento fino a non provare più emozioni.

E’ così che l’autore di “Se questo è un uomo” descrive il proprio tempo trascorso nei lager. Il romanzo è estremamente toccante, perché al di là delle crude descrizioni di ciò che ha visto accadere ai propri compagni di sventura, al sangue versato, ai bisogni primari insoddisfatti, l’autore racconta di una coscienza che cerca di reagire.

Primo Levi racconta di come, in un luogo in cui la morte era una compagna di viaggio quasi desiderata, per quanto tremende erano le condizioni di vita, scopre un’incredibile forza che smuove una passione naturale e pura per la vita.

(leggi, nella tua antologia, il capitolo "Il canto di Ulisse").

Il coraggio, la necessità di non lasciarsi andare, un amore celato dalla sofferenza, ma pur sempre esistente, lo hanno indotto istintivamente a reagire, e questa reazione ha trovato significato nella scrittura, in parole da nascondere perché, nel campo, non era concesso neppure scrivere.

Primo Levi oltre a raccontarsi, cerca di dare una spiegazione, una parvenza di ragionamento per trovare la causa che ha spinto degli essere umani ad annullare la personalità, l’individualità e l’esistenza dei loro simili.

Non c’è nessuna forma di normalità dietro il dolore gratuito che viene inflitto, ed è questo il male radicale, quello perverso, che non può essere spiegato né gestito, ma che in qualche modo deve essere contenuto dentro il petto di chi ha subito l’esproprio della propria anima.

E quando il protagonista di “Se questo è un uomo” riesce a sopravvivere e ad uscire da Auschwitz con le proprie gambe, non riesce a lasciare la propria sofferenza dietro il filo spinato del campo di concentramento, ma se lo porta addosso, oltre, per tutto il tempo che gli resta da vivere.

Lo stile di Primo Levi è asciutto, descrittivo, molto diretto, tipico di chi ha la necessità di far arrivare immediatamente un concetto ai suoi lettori. E il pensiero di quest’uomo sopravvissuto alla più grande sciagura della storia d’Europa, resta impresso negli occhi e nel cuore di chiunque legge questo libro.
ATTIVITA'
Fate libere riflessioni.

martedì 26 maggio 2015

SECONDO DOPOGUERRA: L'ITALIA REPUBBLICANA

 
Il secondo dopoguerra in Italia: la rinascita
 

Alla fine della seconda guerra mondiale, l´Italia presentava un quadro sociale, politico ed economico molto complesso. Il  I Governo di Alcide De Gasperi fu l'ultimo governo del Regno d'Italia (nominato da Umberto II di Savoia allora Luogotenente del Re) e presentò le proprie dimissioni dopo il Referendum istituzionale del 1946 e contestualmente all'insediamento del Capo provvisorio dello Stato eletto dall'Assemblea Costituente. Restò in carica fino a quando il 14 luglio 1946. Il Capo provvisorio De Nicola nominò il II Governo De Gasperi. Tra l'esilio del Re, e l'insediamento di De Nicola, De Gasperi ebbe anche funzioni di Capo provvisorio dello Stato (13 giugno - 1º luglio).
Fu in carica dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946, per un totale di 216 giorni, ovvero 7 mesi e 4 giorni.
Uno dei nodi da sciogliere, senza il quale sarebbe stato impossibile avviare una vera ricostruzione, era stabilire quale tipo di regime politico avrebbe dovuto avere l´Italia dopo la guerra. Il V Governo De Gasperi segna la fine dell’unità resistenziale e l’avvio di una fase nuova nella vita politica italiana, quella del centrismo. De Gasperi decise di sottoporre a referendum popolare la scelta tra monarchia e repubblica e di affidare ad un´Assemblea Costituente elettiva il compito di elaborare una nuova Costituzione; le votazioni si tennero a suffragio universale maschile e femminile il 2 giugno 1946 e videro l´affermazione della Repubblica per due milioni di voti. Il re Umberto II, detto re di maggio perché regnò solo quel mese, fu così costretto a lasciare l´Italia e si recò in Portogallo. All´assemblea costituente si affermarono i grandi partiti di massa come la DC, con il 35,2% ; il PSI con il 20,7% e il PCI con il 18,9%. Fu così che il 28 giugno l´Assemblea Costituente elesse Enrico De Nicola come capo provvisorio dello Stato: era nata la Repubblica italiana.
 
Il momento peggiore del dopoguerra fu l´autunno-inverno 1946-47. Si rafforzarono infatti i legami tra DC e USA e tra PCI e Unione Sovietica; all´aumentare della tensione tra le due superpotenze, aumentavano i contrasti tra i due partiti politici italiani. Per fortuna però, questo non impedì che i lavori dell´Assemblea Costituente procedessero velocemente e fu così che dopo un lavoro di diciotto mesi, si giunse, il 1 gennaio del 1948, all´entrata in vigore della nuova Costituzione.
 
Con l´entrata in vigore della Costituzione i partiti furono chiamati a mobilitarsi per le elezioni che si tennero il 18 aprile del 1948 e che elessero il primo Parlamento della Repubblica. La campagna elettorale fu molto accesa e vide fronteggiarsi soprattutto i due grandi partiti di massa: la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi e il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. I risultati delle elezioni furono favorevoli alla DC che vinse ottenendo il 48% e la maggioranza assoluta, mentre i social comunisti non andarono oltre al 31%. Determinante per la vittoria della DC fu la paura del comunismo, che spinse l´elettorato di destra a votare in massa DC. Pur avendo la maggioranza De Gasperi formò un governo di più ampio respiro chiamando al governo anche alcuni partiti di centro. Nel frattempo fu eletto Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
L´area di sinistra però non si arrese e pur sconfitta alle elezioni si impegnò maggiormente nelle lotte sociali di operai e contadini. Nel frattempo un grave fatto di cronaca turbò il già delicato ordine sociale: il 14 luglio 1948, un fanatico di destra, sparò a Togliatti. Alla notizia l´intero paese si fermò e si temette un insurrezione generale che fu scongiurata grazia alla determinante azione di responsabilità dei dirigenti del PCI.
Il clima però continuava ad essere molto teso perché le agitazioni seguite all´attentato di Togliatti accentuarono l´anticomunismo e rafforzarono il governo che forte di un forte consenso e del rafforzarsi della guerra fredda fece in modo che nel 1949 l´Italia aderisse al Patto Atlantico e alla Nato.

Risolto il problema del posizionamento internazionale De Gasperi si dedicò a risolvere i problemi interni. Per risollevare l´economia favorì una politica economica liberista e consentì agli imprenditori di imporre agli operai dure condizioni di lavoro e bassi salari (favoriti dalla mancanza di lavoro e dall´enorme mano d´opera). Per il Sud venne avviata una riforma agraria e venne istituita la Cassa per gli intervento straordinari del Mezzogiorno. Se la seconda sortì qualche effetto, la portata della prima fu molto limitata in quanto i contadini, che pure avevano ricevuto una terra, erano privi di tutti gli altri mezzi necessari per condurre le loro attività. Per i contadini meridionali, ancora una volta, non restava che la dolorosa scelta dell´emigrazione che si indirizzò là dove le industrie si stavano concentrando: ovvero nel "triangolo industriale" Milano-Torino-Geova. Nelle fabbriche le condizioni di lavoro erano dure e i pregiudizi contro i meridionali erano forti e crudeli, ma la prospettiva di un lavoro facevano accettare i sacrifici.
 
Pur tra tutte queste difficoltà tra il 1958 e il 1963 in Italia si verificò il miracolo economico. La produzione industriale, che puntò decisamente sugli elettrodomestici la petrolchimica e la metalmeccanica, raddoppiò e le esportazioni crebbero del 14,5% all´anno. Finalmente c´erano beni di consumo abbondanti e disponibili per molti. Il tenore di vita degli Italiani migliorò.

La vecchia Italia, contadina, immobile, cedette il passo ad un´Italia industrializzata più moderna e più vicina ai grandi Stati d´Europa.

DOPOGUERRA E RICOSTRUZIONE

Dopoguerra e Ricostruzione - Rai Storia

venerdì 22 maggio 2015

CARLO LEVI

Troppo affrettatamente la critica mise in rilievo aspetti decadenti di Levi di Cristo si è fermato ad Eboli (scritto nel 1943, edito nel 1945) nato dall'esigenza del mondo lucano durante il soggiorno al confino. Levi aveva cultura europea e la sua storia interiore era quella dell'intellettuale democratico che crede nell'alleanza con la base popolare e vede il taglio compiuto dal fascismo. Civiltà, storia come progresso, valore intellettuale cadono, in conseguenza, per Levi il quale al rapporto razionale col mondo sostituisce il rapporto magico-misterioso con le cose:
  1. Non esiste distinzione fra l'uomo e l'animale, fra l'uomo e la pianta; e il sole, la pioggia, la foresta, la generazione e la morte, il mondo intero che ci circonda sono tutt'uno con la persona che vive come un albero, si radica al suolo, fiorisce, dà frutto e, a suo tempo, avvizzisce.
Ma alla luce dell'impegno sociale, dell'antifascismo, del meridionalismo, degli interessi europei esistenzialisti e psicanalitici di Levi l'approdo al mondo magico contadino vuole essere non una regressione bensì un modo di allargare l'esperienza nella cultura contadina mitica e misterica per cogliere, più profondamente che con la sola storia razionale, l'umanità segreta e confusa nella storia della condizione contadina.
Non si tratta, perciò, di fuga nell'indistinto ma di una purificazione nei valori autonomi, di una liberazione dalla decadenza borghese. La funzione catartica della civiltà contadina e la necessità di conservare le strutture non sono senza ambiguità dal punto di vista storico e culturale, ma quei valori contadini per Levi sono anche valori di contestazione («gli usi antichi e le loro credenze ereditate, estranei e ostili allo Stato e alla storia...»); e Levi dalla rappresentazione di quel mondo come fonte di palingenesi è venuto passando al convincimento del processo di emancipazione sostenuto dalle lotte contro le millenarie soggezioni.

sabato 16 maggio 2015

LA QUESTIONE TRIESTE. LE FOIBE

 
La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale“.
Legge 30 marzo 2004 n. 42


 
Con l'espressione massacri delle foibe, o spesso solo foibe, si intendono gli eccidi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, occorsi durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. Il nome deriva dai grandi inghiottitoi carsici dove furono gettati molti dei corpi delle vittime, che nella Venezia Giulia sono chiamati, appunto, "foibe".

Per estensione i termini "foibe" e il neologismo "infoibare" sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi.


Il fenomeno dei massacri delle foibe è da inquadrare storicamente nell'ambito della secolare disputa fra italiani e popoli slavi per il possesso delle terre dell'Adriatico orientale, nelle lotte intestine fra i diversi popoli che vivevano in quell'area e nelle grandi ondate epurative jugoslave del dopoguerra, che colpirono centinaia di migliaia di persone in un paese nel quale, con il crollo della dittatura fascista, andava imponendosi quella di stampo filosovietico, con mire sui territori di diversi paesi confinanti.
(Da Wikipedia)
 

STRAGE DI CEFALONIA

(dal sito dell'ANPI)
L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presidiava le isole di Cefalonia e agli ordini del generale Antonio Gandin, si trovò di fronte alla consueta alternativa: o arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o affrontare la resistenza armata, sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno. Tra il 9 e l’11 settembre si svolsero estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fece affluire sull’isola nuove truppe. L’11 settembre arrivò l’ultimatum tedesco, con l’intimazione a cedere le armi.
All’alba del 13 settembre batterie italiane aprirono il fuoco su due grossi pontoni da sbarco carichi di tedeschi. Barge rispose con un ulteriore ultimatum, che conteneva la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi. Gandin chiese allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. Tramite un referendum i soldati scelsero all’unanimità di resistere.
Il 15 settembre cominciò la battaglia che si protrasse sino al 22 settembre, con drastici interventi degli aerei Stukas che mitragliarono e bombardano le truppe italiane. I nostri soldati si difesero con coraggio, ma non ci fu scampo: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.
L’Acqui si dovette arrendere, la vendetta tedesca fu spietata e senza ragionevole giustificazione. Il Comando superiore tedesco ribadì che "a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer".
Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena; in una scuola 600 soldati italiani con i loro ufficiali furono falciati dal tiro delle mitragliatrici; 360 ufficiali furono uccisi a gruppetti nel cortile della casetta rossa. Questi gli ordini del generale Hubert Lanz, responsabile dell’eccidio: "Gli ufficiali che hanno combattuto contro le unità tedesche sono da fucilare con l’eccezione di: 1) fascisti, 2) ufficiali di origine germanica, 3) ufficiali medici, 4) cappellani. 5) fucilazioni fuori dalla città, nessuna apertura di fosse, divieto di accesso ai soldati tedeschi e alla popolazione civile. 6) nessuna fucilazione sull’isola, portarsi al largo e affondare i corpi in punti diversi dopo averli zavorrati".
Alla fine saranno 5.000 i soldati massacrati, 446 gli ufficiali; 3.000 superstiti, caricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi, scomparirono in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, la Divisione Acqui annientata.
Molti dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che fino all’abbandono tedesco di Cefalonia si mantenne in contatto con i partigiani greci e con la missione inglese operando azioni di sabotaggio e fornendo preziose informazioni agli alleati.


FOSSE ARDEATINE: IL MASSACRO. ROMA 1944 - Rai Storia

L'Eccidio delle Fosse Ardeatine

Il 10 giugno 1940 l’Italia fascista, guidata da Benito Mussolini , dichiarò guerra all’Inghilterra e alla Francia, entrando così nel secondo conflitto mondiale a fianco dell’Asse.
LA RESA DELL’ITALIA
Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del 1943, e il successivo voto di sfiducia contro Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, avvenuto il 25 dello stesso mese, il re Vittorio Emanuele III fece arrestare il dittatore e nominò un governo d’emergenza guidato dal Maresciallo Pietro Badoglio.
Dopo essere fuggito a Bari, sulla costa adriatica, e avervi stabilito la sede provvisoria del governo, il 3 Settembre 1943 Badoglio firmò un cessate-il-fuoco con le forze alleate e l’8 settembre successivo annunciò la resa.
LA REPUBBLICA DI SALÒ
Diversi giorni dopo che gli Italiani si erano arresi agli Alleati, un commando Tedesco agli ordini del Tenente Colonnello delle SS Otto Skorzeny liberò Mussolini e lo aiutò a raggiungere Salò, dove egli instaurò la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio di stampo fascista il cui quartier generale aveva sede nella cittadina sul lago di Garda. Nel frattempo, le forze armate tedesche occuparono gran parte del Nord Italia e continuarono a combattere contro gli Alleati e contro i partigiani della Resistenza insieme alle forze italiane rimaste fedeli al Fascismo, fino al momento della resa finale, il 2 maggio 1945.
L’ATTENTATO PARTIGIANO
Il 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.
I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira - un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria, poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia, nel 1943.
Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’attentato.
LA RAPPRESAGLIA
La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma - approvò la proposta.
Si racconta che quando a Hitler venne comunicata la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del massacro, dopo la guerra, testimoniarono come Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der Wehrmacht, or OKW).
Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo l’attentato.
LE VITTIME DELLE FOSSE ARDEATINE
Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.
Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.
Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 57 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici.
Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri.
L’ECCIDIO ALL’INTERNO DELLE FOSSE ARDEATINE
I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.
Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio.
Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.
I PROCESSI DEL DOPOGUERRA
Dopo la fine della guerra le autorità alleate processarono alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine.

venerdì 8 maggio 2015

NEOREALISMO TRA CINEMA E LETTERATURA


IL NEOREALISMO IN LETTERATURA
Il Neorealismo è un movimento culturale generato da un "clima etico morale" sviluppatosi nel secondo dopoguerra, tra il 1943 e il 1952. Esso, pur rifacendosi a modelli prevalentemente ottocenteschi (Verga soprattutto), è caratterizzato dalla necessità, da parte degli intellettuali di sinistra, antifascisti (artisti, letterati, registi...), di un ritorno alla realtà, dopo il soggettivismo e l'intimismo che avevano caratterizzato gli anni Trenta. Il riferimento è la realtà della guerra, della Resistenza e del dopoguerra, con la sua miseria e con le sue lotte politiche. L' "Andare verso il popolo" sarà l'impegno dei letterati e dei registi del cinema neorealista, nella convinzione che siano i fatti stessi a caricarsi di significato etico ed estetico. L'impegno culturale e sociale darà spazio a testimonianze dirette e alle esperienze autobiografiche, come, per esempio quelle di guerra e di prigionia. La nuova narrativa di influenza americana (Hemingway, per esempio) assume caratteristiche del "parlato", con un'attenzione anche alle diverse caratteristiche regionali, che mira a conferire autenticità alla narrazione. Tra gli autori più importanti del Neorealismo ricordiamo: Vittorini, Pavese, Fenoglio, Moravia, Pratolini, Cassola, Alvaro, Calvino (per la sua produzione giovanile), Primo Levi e Carlo Levi.
Per la produzione cinematografica si possono citare i capolavori di Vittorio De Sica, Ladri di biciclette (1948), Umberto D (1952) e di Roberto Rossellini Roma città aperta (1945). Ma sono tante le opere e i film di grande importanza che testimoniano la miseria e la povertà a cui ha condotto la dittatura fascista!


Il Neorealismo, tuttavia, non è solo denuncia, è anche impegno di ricostruzione materiale e morale del paese.

mercoledì 29 aprile 2015

EUGENIO MONTALE




LA POETICA E IL PENSIERO DI EUGENIO MONTALE

IL PENSIERO
Montale ha una visione pessimistica della vita umana: l'uomo contemporaneo è condannato a una tragica esistenza di solitudine di alienazione. La sua poetica si inspira proprio a questa negatività del vivere, indagato con lucida consapevolezza. E' una drammatica e incessante ricerca quella di Montale, condotta senza sosta sul filo di un doloroso travaglio interiore, di esperienze personali, di intuizioni.
Ma in questo precario vivere non mancano spiragli, anche se brevi, di felicità (Felicità raggiunta), qualche barlume di salvezza, (I limoni) che ci sveli la verità che dia senso alla vita.
 
Due sono i testi fondamentali in cui Montale enuncia la sua concezione poetica e spiega le sue scelte stilistico-espressive.
 
  1. I Limoni: In questa lirica Montale si vuole contrapporre ai "poeti laureati", alla poesia aulica, retorica, dove la realtà viene falsata per avere onori e gloria. Questo è appunto lo stile di D'Annunzio, Montale, invece, ama lo stile semplice che gli permette di ritrarre la realtà così com'è, come ci appare ogni giorno della nostra vita. Ai "bossi", "ligusti", "acanti", tutte piante nobili di cui parlano i poeti laureati, Montale contrappone gli aspetti più comuni della vita come "le strade che riescono agli erbosi / fossi", le "pozzanghere / mezzo seccate", gli "alberi dei limoni", simbolo della realtà concreta e semplice.
  2. Non chiederci la parola: è un'altra importante dichiarazione di poetica che scrive Montale, troviamo in questa lirica espresse la sofferenza consapevolezza del vuoto che attornia la nostra esistenza e l'impossibilità del poeta di suggerire certezze, di fornire risposte chiarificatrici, di rivelare verità assolute; egli può soltanto essere testimone della crisi dell'uomo contemporaneo e della sua incapacità a prendere risoluzioni positive. Queste sue dichiarazioni si contrappongono ai poeti decadenti i quali consideravano la poesia come l'unica forma di conoscenza possibile; il poeta diventa così una sorta di "poeta veggente" capace di svelare la realtà.
 


OSSI DI SEPPIA
Alla base di questa raccolta c'è il senso del vuoto che circonda la vita dell'uomo, la tragica constatazione del "male di vivere" che si manifesta nelle dolorose esperienze della natura quali "il rivo strozzato", "l'incartocciarsi della foglia / riarsa". Il paesaggio è quello della Liguria, aspro, assolato, riarsoscabro, significativamente emblematico di un determinato stato d'animo. Il linguaggio è preso dalla quotidianità, ma non è privo di termini ricercati e aulici.
 

LE OCCASIONI
Le "occasioni" sono incontri con persone che gli risvegliano i ricordi sopiti del passato, la visione di luoghi cari al suo cuore, i volti di donne amate, soprattutto quello di Irma Brandeis, l'italo-americana che Montale chiama Clizia; ella è vista nelle poesie come donna-angelo, come una mediatrice tra l'uomo e Dio, anche se Montale non è credente "sente" che irrazionalmente qualcosa in realtà esiste, e questo lo porta alla sua visione di angelo.
Il ricordo del passato che non ritorna più, è espressione di una vana lotta contro il tempo che tutto dissolve e cancella. Da qui il desiderio del poeta di uscire dal tunnel tenebroso, di trovare il "varco", la possibile salvezza incarnata dalle figure femminili. Ne "Le occasioni" come in "Ossi di seppia" non mancano gli oggetti anche qui caricati di valori simbolici.
Ma se in "Ossi di seppia" questi valori simbolici erano spiegati, questo non succede ne "Le occasioni"; infatti Montale afferma in "Intenzioni"<< Non pensai  a una lirica pura nel senso ch'ebbe poi anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto ad un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiatterlarli>>.
In questa raccolta si ritrova una maggiore speranza rispetto ad "Ossi di seppia", il paesaggio inoltre non è più quello aspro e scabroso della Liguria, ma ora il poeta descrive il paesaggio toscano, sicuramente più accogliente del ligure.
 


LA BUFERA E ALTRO
Scritta tra il 1940 e il 1954, questa raccolta si apre con la serie "Finisterre". Montale si fa partecipe del dramma della società sconvolta dalla tragedia della II guerra mondiale: sono visioni di rovine, di lutti e di dolore, il linguaggio è più aperto e comprensibile, in queste liriche infatti è scomparso quell'aristocratico isolamento del poeta presente in "Ossi di seppia" e ne "Le occasioni"; qui la sua anima vibra piena di orrore e di rivolta. Il tono si fa polemico contro la classe dirigente che aveva portato l'Italia alla catastrofe, e altamente drammatici diventano i "temi" che alla fine sfumano in quello della solidarietà umana.
Passano gli anni e ai ricordi dolorosi subentrano momenti più sereni. In sostanza La bufera rappresenta lo sforzo di Montale di avvicinare la sua poesia alla vita, alla realtà. Ne "Le occasioni" egli aveva prediletto le forme classiche con strofe e rime; nella Bufera usa forme aperte (quasi scomparse le strofe e le rime) e periodi lunghi e lunghissimi. I versi, endecasillabi e settenari, spesso amplificano il ritmo con gli enjambements.
Da parte del poeta, si manifesta una disposizione religiosa che non approda ad una fede vera e propria, infatti come ne "Le occasioni", non manca la presenza femminile, Clizia, cui il poeta affida le sue speranze di salvezza. 
 


  LE ULTIME RACCOLTE
Tra le sue ultime raccolte si distinguono "Satura" - di cui Xenia è la prima sezione dedicata alla moglie morta (Drusilla Tanzi) chiamata dal poeta "Mosca", con la quale egli tiene un tenero colloquio sull'eterno e sul divino - Diario del '71 e '72, Quaderno di quattro anni e Altri versi.
Un immutato pessimismo e una visione disperata e tragica della vita caratterizzano anche quest'ultima produzione.
ATTIVITA'
La poetica dell’oggetto emblematico, elaborata da Montale, ha molti punti di contatto con quella del “correlativo oggettivo” di Eliot, che ne applicò i principi nei Poems, usciti a Londra nel 1925, lo stesso anno degli Ossi di seppia montaliani.
Rispondi alla domanda: cosa intende comunicare Montale con la tecnica del "correlativo oggettivo"?
 
 

venerdì 24 aprile 2015

SALVATORE QUASIMODO


La poetica di Salvatore Quasimodo si può suddividere in tre fasi principali. La prima fase ha come temi salienti la malinconia, l'amore per la terra siciliana e i ricordi legati alla sua infanzia. In questo primo periodo egli si ispira ai temi della poesia contemporanea tipica degli autori come Pascoli e D'annunzio.
La seconda fase della sua produzione letteraria ha come base l'Ermetismo. La poesia è più "pura", in quanto l'autore si impegna nello studio di lingue classiche.
La terza fase invece scaturisce dall'esperienza orribile della guerra. Il suo modo di scrivere deve quindi trasformarsi nell'espressione dell'animo umano e la poesia mette in luce l'odio e il rifiuto verso la guerra, ma anche il desiderio di restituire all'uomo la fiducia nella vita e nel futuro, anche attraverso le illusioni.

Quasimodo si impegna in una poesia che manifesta l'aberrazione per la guerra e l'ansia di "rifare" l'uomo, ridandogli le sue illusioni e la fiducia nel futuro.
Nel 1959 ottenne il premio Nobel per la letteratura. Nelle prime raccolte pubblicate Acque e terre (1930) e Ed è subito sera (1942) Quasimodo sviluppò i temi della solitudine, raccontando la condizione dell'uomo che è perennemente legato a tutto ciò che riguarda la sua infanzia e il suo passato. Tali ricordi rappresentano ciò che l'uomo stesso ha perduto e non potrà più ritrovare. Acque e terre è ambientata e dedicata alla Sicilia, sua terra natale.

L’isola diventa il simbolo di una felicità perduta a cui si contrappongono il dolore e la difficoltà della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere. Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena. Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno.
 
Antico inverno
 
Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma:
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.

Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po' di sole, una raggera d'angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d'aria al mattino.

Anche in questo caso una realtà lontana di un «antico inverno» viene rievocata con pochi cenni essenziali, anche attraverso l'uso, tipico di Quasimodo, dei due punti e degli spazi bianchi, alternando versi brevi ed endecasillabi. Nella lirica si riconosce una figurazione affidata ad elementi precisi - la neve, gli uccelli in cerca di cibo - che assumono però un valore simbolico, alludendo ad una provvisorietà (le parole subito raggelate) che non cancella l'intensità del ricordo. La raccolta del 1930 vive quindi di una continua oscillazione tra il racconto della propria storia e la sua trasfigurazione letteraria.

Il paesaggio della Sicilia è spesso al centro della sua ispirazione, in tutte e tre le fasi della sua produzione letteraria.
Si impegnò nella traduzione dei poeti greci, il che gli donò un 'arricchimento del linguaggio poetico, nonché una migliore ispirazione. Le esperienze della guerra lo indussero ad allontanarsi dagli aspetti più rigidi dell'Ermetismo, ad abbandonare le meditazioni solitarie e ad avvicinarsi a tutti gli uomini. Tutto ciò si nota soprattutto in Giorno dopo giorno (1949) e nella raccolta successiva La vita non è un sogno (1949). In quest'ultima, descrive il Sud come un luogo dove il sangue continua a macchiare la terra. Si tratta dunque di una raccolta mirata anche a rappresentare le ingiustizie sociali, nelle quali il rapporto con Dio è un dialogo che certe sulla solitudine e le ingiustizie terrene.
Nella raccolta Il falso e vero verde (1956) trova spazio una sezione dedicata alla Sicilia. Tuttavia, c'è anche una profonda riflessione sui campi di concentramento e sugli orrori della guerra.
 
L'opera La terra impareggiabile (1958) è una rappresentazione di Milano che è parte di una «civiltà dell’atomo», nella quale la solitudine colpisce tutti gli uomini e il poeta sente il desiderio di parlare e confrontarsi con altri uomini, tutti legati dal dolore profondo.
L'ultima raccolta poetica, intitolata Dare e avere (1966) può essere considerata come un resoconto della sua produzione letteraria, ma anche della propria vita. Qui trova spazio il tema della morte, ma anche riflessioni sull'esistenza.
In tutta la sua produzione letteraria è evidente la volontà dell'autore di agire concretamente per la trasformare la realtà, al fine di realizzare un mondo migliore.
Il figlio del Poeta, Alessandro, è invitato in tutti i Paesi del mondo per recitare le poesie del padre. Inoltre, a testimonianza dell'impronta lasciata dal poeta nella letteratura italiana, in molti Paesi del mondo sono indetti premi letterari intitolati a Quasimodo, così come centri di studio scientifici, riviste, associazioni e molto altro.
Potete approfondire le tematiche dell'autore leggendo su questo sito la seguente opera con video di accompagnamento:
Ed è subito sera
E da questo link potete vedere con quanta gratitudine accoglie il PREMIO NOBEL:
 
ATTIVITA'
Riporta qui il tema centrale della poesia che più apprezzi di Quasimodo (max 10 righi).
 
 

 

domenica 22 marzo 2015

LA POETICA DI PIRANDELLO

 

Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, idea ripresa dalla filosofia di Bergson: la realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, incandescente, indistinto. Tutto ciò che assume forma distinta ed individuale, comincia a morire.

Questo lo porta ad avere una nuova e rivoluzionaria concezione dell'uomo: esso tende a fissarsi in una forma individuale, che lui stesso si sceglie, in una personalità che vuole coerente ed unitaria; questa, però, è solo un'illusione e scaturisce dal sentimento soggettivo che ha del mondo.

Inoltre gli altri con cui l'uomo vive, vedendolo ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, gli assegnano determinate forme. Perciò mentre l'uomo crede di essere uno, per sé e per gli altri, in realtà è tanti individui diversi, a seconda di chi lo guarda.
Ciascuna di queste forme è una costruzione fittizia, una "maschera" che l'uomo s'impone e che gli impone il contesto sociale; sotto questa non c'è nessuno, c'è solo un fluire indististo ed incoerente di stati in perenne trasformazione.

Ciò porta alla frantumazione dell'io, sul quale si era fondato tutto il pensiero sino a quel tempo, in un insieme di stati incoerenti, in continua trasformazione. La crisi dell'idea di identità e di persona è l'ultima tappa della crisi delle certezze che ha investito la civiltà dei primi del novecento.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell'io suscita nei personaggi pirandelliani sentimento di smarrimento e dolore. In primo luogo provano angoscia ed orrore, seguiti dalla solitudine, quando si accorgono di non essere nessuno; in secondo luogo soffrono per essere fissati dagli altri in forme in cui non si possono conoscere.

Vi è quindi un rifiuto delle forme della vita sociale, che impongono all'uomo "maschere" e parti fittizie. Innanzitutto viene criticata la famiglia. La seconda "trappola" è quella economica, la condizione sociale ed il lavoro; da quest'ultima non vi è alcuna via d'uscita storica: il pessimismo pirandelliano è totale. Per lui è la società in quanto tale che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale; per questo la sua critica è puramente negativa e non propone alternative.

L'unica via di relativa salvezza che viene data ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale, oppure nella follia, che è lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale.

Nell'opera pirandelliana viene introdotto un nuovo personaggio: il "il forestiere della vita", colui che "ha capito il giuoco" e che perciò si isola, rifiutando di assumere la sua parte, ed osservando gli uomini imprigionati dalla "trappola" con un atteggiamento umoristico (filosofia del lontano).

Dal vitalismo pirandelliano scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo: se la realtà è in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti ed onnicomprensivi. Non solo, ma non esiste neanche una prospettiva privilegiata da cui osservare l'irreale, le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti (Einstein).

Ciò comporta un radicale relativismo conoscitivo: ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Da ciò deriva un'inevitabile incomunicabilità tra gli uomini, dato che ciascuno fa riferimento alla realtà come gli appare, mentre non può sapere come sia per gli altri.

L'incomunicabilità accresce il senso di solitudine dell'uomo che scopre di essere nessuno.
Dalla visione complessiva del mondo scaturiscono la concezione dell'arte e la poetica di Pirandello.

L'opera d'arte nasce dal libero movimento della vita interiore, mentre la riflessione, al momento della concezione, non compare o rimane celata sotto forma di sentimento. Nell'opera umoristica, invece, la riflessione giudica, analizzandolo e scomponendolo, il sentimento.
Il dato caratterizzante dell'umorismo è il sentimento del contrario, che permette di cogliere il carattere molteplice e contradditorio della realtà e di vederla sotto diverse prospettive contemporaneamente. Inoltre accanto al comico è sempre presente il tragico, dal quale non può mai essere separato.
L'attività teatrale di Pirandello significò per il teatro italiano una svolta decisiva ed esemplare. Pirandello giunse al teatro per una profonda convinzione di ordine morale: era convinto, cioè, che, attraverso la rappresentazione scenica, si potesse rivelare meglio agli uomini le verità alle quali egli era dolorosamente pervenuto. Egli definì perciò " teatro dello specchio " tutta la sua opera, perché in essa si rappresenta la vita senza maschera, quale essa è nella sua sostanza e nella sua verità, lo spettatore, l'attore e il lettore vi si vedono come sono, come chi si guardi ad uno specchio, vi si osservano con ansia e con curiosità , spesso vi si vedono deformati dagli altri, appunto come un cattivo specchio deforma l'immagine fisica; allora si riconoscono diversi da come si erano sempre immaginati e ne restano amareggiati e preoccupati. Il suo capolavoro, per giudizio concorde della critica, è giudicato la commedia " Sei personaggi in cerca d'autore " (1921), che è anche la maggiore opera del teatro italiano del Novecento. In essa Pirandello, riprendendo l'antico artificio del " teatro nel teatro ", dà la più complessa e riuscita rappresentazione della condizione umana quale gli si era venuta configurando e, insieme, del suo modo di intendere il rapporto tra l'arte e la vita. I sei personaggi che chiedono al capocomico di essere tratti dal limbo della loro condizione, di poter vedere rappresentato il loro dramma e che poi non si riconoscono negli attori che tentano di riviverlo, sono un po' la cifra di tutta l'arte pirandelliana in perenne contesa con l'infida, inafferrabile realtà che sembra di continuo assoggettarla, ma ne resta in effetti profondamente lacerata. I sei personaggi incarnano ognuno una visione diversa dello stesso dramma che ogni personaggio vive con una "sua" verità inconciliabile con quella degli altri. Questo è il dramma pirandelliano della solitudine e dell'incomunicabilità che viene spiegato dal Padre quando, rivolgendosi al capocomico, gli dice: «ciascuno di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti" signore, "tanti" secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi; "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l'illusione d'esser sempre "uno per tutti" e sempre "quest'uno" che ci crediamo in ogni nostro atto! Non è vero!».

ATTIVITA'
Rispondi alle domande (le risposte in max 5 righi):
1) Quale concetto-chiave ci comunica questa sequenza di testo?
" Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valo...re delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai! "
- Luigi Pirandello, dal libro "Sei personaggi in cerca d'autore " -
2) Che cos'è l'umorismo per Pirandello?
3) Perché l'io pirandelliano è frantumato?

sabato 21 marzo 2015

M'ILLUMINO D'IMMENSO

MATTINA DI UNGARETTI
 
Mattina
M'illumino d'Immenso.
 
Scritto nel 1917, il brevissimo testo è confluito nella raccolta l'"Allegria" del 1919 con il titolo definitivo "Mattina".
 
 
M’illumino d’immenso
E' un ossimoro, in quanto esprime la fusione di due elementi contrapposti, l'umano e l'infinito, il singolo e l'immenso.
E' anche un'analogia, una forma di metafora accorciata, riferita alla comprensione improvvisa e illuminante del senso della vastità del cosmo.
E' un'iperbole che intende dare il senso di esagerazione dell'esperienza vissuta dall'autore e una sineddoche, in quanto una parte, il singolo essere, si illumina del tutto.
Il titolo è metafora del momento della giornata nel quale si viene abbracciati da una luce molto intensa proveniente dall’alto, accompagnata da una sensazione di calore e allegoria della consapevolezza dell'esistenza dell'eterno che ci avvolge e ci sovrasta.
E' antitetico al famoso verso di Leopardi "e il naufragar m'è dolce in questo mare" in quanto in tale verso era l'uomo che si immergeva nell'eternità, mentre nei versi ungarettiani è l'eterno che si immerge nell'Uomo.
 
La luce del mattino dopo la notte rende l'immensità del creato, che mi pervade e riempie di gioia. E’ la poesia più breve di Ungaretti: due parole, unite tra loro da fitti richiami sonori. L'idea di immenso scaturisce invece dall'impressione che cielo e mare, nella luce del mattino, si fondano in un'unica, infinita chiarità.

La comprensione della poesia richiede di soffermarsi sulla particolare valorizzazione del titolo, indispensabile all’interpretazione corretta del significato: lo splendore del sole sorto da poco trasmette al poeta una sensazione di luminosità che provoca immediate associazioni interiori ed in particolare il sentimento della vastità. M’illumino d’immenso significa appunto questo: l’idea della infinita grandezza mi colpisce nella forma della luce. L’intensità della poesia si affida anche alla sinestesia su cui è costruito il testo, oltre che al perfetto parallelismo fonico-ritmico dei due versi, aperti da una elisione, costituiti da due ternari e ruotanti attorno a due termini comincianti per i e terminati per o.
Il poeta ha voluto mettere in evidenza la felicità di immergersi nella luminosa bellezza del creato, negli spazi infiniti di una mattina piena di sole.
Lui guarda il cielo pulito e pieno di luce. Percepisce un certo benessere  e allora si riempie di luminosità e di gioia che lo fa sentire in armonia con la natura, soprattutto in quel periodo, in quanto uscito  dal fronte con i suoi amici stanchi e delusi dalla guerra.
ATTIVITA'
Giuseppe Ungaretti è stato un autentico innovatore del “fare poesia” in Italia. La sua tecnica si avvale della “poetica del frammento”,  che significa?

martedì 17 marzo 2015

LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

 
La guerra civile spagnola del 1936-39 è la prova generale della Seconda guerra mondiale perché vede impegnate a sostegno delle due parti in lotta – più o meno direttamente e con differente peso militare – da un lato Inghilterra, Francia e Urss, e dall’altro Italia, Germania e Portogallo. La Spagna, dunque, è il teatro del primo scontro armato tra fascismo e antifascismo, con gli italiani – le camice nere di Mussolini da un lato, e gli oppositori del regime dall’altro – impegnati su entrambi i fronti.
 
 
Il 26 aprile del 1937, durante la guerra civile di Spagna, Guernica viene rasa al suolo da un attacco aereo.
Il genio di Picasso ne ha fatto un simbolo universale che mescola all'orrore degli eventi una strana bellezza che ancora oggi cattura chi guarda l'opera...

FILMOGRAFIA -
Alcuni Film inerenti alla Guerra Civile Spagnola:
- " Terra e Libertà " di Ken Loach ( 1995 );
- " Ay, Carmela! " di Carlos Saura ( 1989 );
- " Gioco di Donna " di John Duigan ( 2004 );
- " La fine di un mistero " di Miguel Hermoso.
 
ATTIVITA'
Nel 1939, il generale Franco riesce ad imporre la propria dittatura. Caratterizzazione del personaggio: Francisco Franco (max 10 righi).  

giovedì 5 marzo 2015

LA SECONDA GUERRA MONDIALE



 LE CAUSE SCATENANTI
La causa (di comodo) che portò allo scoppio della  seconda guerra mondiale fu costituita dalla questione di Danzica implicante le più decise rivendicazioni della Germania hitleriana sul «corridoio polacco», ma le vere cause della guerra erano assai più remote e complesse possono essere riassunte nelle seguenti:
 1 - il contrasto franco-tedesco, determinato dalla volontà di rivincita della Germania, che mirava al controllo del Trattato di Versailles e alla conquista del primato militare europeo.
 2 - il contrasto anglo-tedesco, determinato dall'insopprimibile volontà di potenza della Germania, che mirava sempre più apertamente e dichiaratamente alla conquista del primato politico ed economico europeo.
 3 - il contrasto italo-francese, determinato dalle divergenze d'interessi tra i due paesi, soprattutto nell'Africa e dalle rivendicazioni del nazionalismo fascista, che avanzava le più temerarie pretese su Nizza, sulla Savoia e sulla Corsica.
 4 -  il contrasto Italo - inglese, determinato dall'atteggiamento ostile assunto dall'Inghilterra nei nostri confronti al tempo dell'«impresa etiopica», e dalle preoccupazioni che suscitavano in Inghilterra gli aspetti sempre più aggressivi della nostra politica nazionalistica nel Mediterraneo (pressanti rivendicazioni sull'isola di Malta; aspirazioni al controllo del Canale di Suez, ecc.).
  5  - l'espansionismo imperialista del Giappone in Estremo Oriente, sfociato fin dal 1937 in guerra aperta contro la Cina.
 6  - l'avvicinamento italo-tedesco, o, per meglio dire, tra l'Italia fascista e la Germania nazista, determinato dall’affine ideologia, dai sempre più stretti accordi economici e politici, e dalla medesima tendenza all’imperialismo. Quest’avvicinamento tra i due stati aveva trovato la sua attestazione nella firma dell'Asse Roma - Berlino (ottobre 1936), nell'adesione del Mussolini al Patto Anticomintern (novembre 1937), e nella firma del Trattato di alleanza italo-tedesco (il cosiddetto «Patto d'acciaio», maggio 1939).
Tutte queste cause però si possono ridurre a una sola. La più vera e profonda causa della guerra fu, infatti, la brutale aggressività del nuovo imperialismo tedesco. Hitler non aveva esitato a iniziare una vera e propria corsa alla guerra, procedendo inesorabilmente all'annessione dell'Austria (il cosiddetto Anschluss) e alla conseguente conquista e spartizione della Cecoslovacchia. La cosiddetta questione di Danzica e del «corridoio polacco» non fu che l'ultimo atto di una fatale tendenza imperialistica, che doveva portare inevitabilmente alla guerra.

ATTIVITA'
Quali erano le armi  "armi-meraviglia" o "armi-miracolo" dei nazisti?