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sabato 30 maggio 2015

L'ITALIA REPUBBLICANA

DALL' E-BOOK ZANICHELLI: SECONDO DOPOGUERRA


 
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile, giorno della liberazione di Milano e Torino. La scelta venne fissata in modo definitivo con la legge n. 260 del maggio 1949, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, come le domeniche, il primo maggio o il giorno di Natale, in quanto “anniversario della liberazione”.

Il 25 aprile non è la festa della Repubblica italiana, che si celebra invece il 2 giugno (per alcuni anni, dal 1977 al 2001, fu trasformata in una festa mobile, la prima domenica di giugno): con riferimento al 2 giugno 1946, giorno in cui gli italiani votarono al referendum per scegliere tra forma di governo monarchica e repubblicana nel nuovo stato.

Anche altri paesi europei ricordano la fine dall’occupazione straniera durante la Seconda guerra mondiale: Olanda e Danimarca la festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8 maggio, la Romania il 23 agosto. Anche l’Etiopia festeggia il 5 maggio la festa della Liberazione, anche se in quel caso si tratta della fine dell’occupazione italiana (avvenuta nel 1941).
 

LA GUERRA FREDDA



 

 

Per GUERRA FREDDA si intende il confronto mondiale tra Stati Uniti e Unione Sovietica iniziato nel secondo dopoguerra. L'espressione (in ingl. cold war) fu coniata dal giornalista americano W. Lippmann (1889-1974) per descrivere un'ostilità che non sembrava più risolvibile attraverso una guerra frontale tra le due superpotenze, dato il pericolo per la sopravvivenza dell'umanità rappresentato da un eventuale ricorso alle armi nucleari. Tale lotta per il controllo del mondo conobbe diverse fasi, caratterizzate anche da gravi tensioni (crisi missilistica di Cuba, 1962) e guerre 'calde', come quelle in Corea (1950-53) e in Vietnam (conclusa nel 1975); non mancarono, comunque, lunghi periodi di relativa stabilità del quadro internazionale che condussero nel corso degli anni Ottanta alla distensione nelle relazioni tra le due superpotenze. Il bipolarismo, ossia questo sistema fondato sulla contrapposizione dei due blocchi, paesi occidentali da un lato e paesi orientali dominati dai regimi comunisti dall'altro, si concluse simbolicamente con la caduta del muro di Berlino (1989) e lo scioglimento dell'URSS (1991).

SE QUESTO E' UN UOMO - POESIA

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case

Questa poesia costituisce la Prefazione di “Se questo è un uomo”.
Essa riassume in sé il contenuto del libro stesso e la sua funzione di testimonianza e di ammonimento per le generazioni future.

Se questo è un uomo

“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1)

L'opera memorialistica “Se questo è un uomo” di Primo Levi è il romanzo in cui l’autore racconta la sua esperienza nei campi di concentramento, durante la Seconda Guerra Mondiale. Sottratto alla sua vita quotidiana, Primo Levi viene condotto in questo luogo di morte, costruito per annientare la dignità umana.

Il lager nazista è pensato appositamente per trasformare gli uomini in vere e proprie bestie, costretti a lottare gli uni contro gli altri per la sopravvivenza. I suoi abitanti sono obbligati ai lavori forzati, denutriti e privati persino del nome, spogliati di qualsiasi bene e divisi dalle proprie famiglie.

(leggi, nella tua antologia, il capitolo, intitolato "Sul fondo")

La vita nel lager è descritta come una realtà incredibilmente alienante, in cui gli uomini e le donne subivano ogni tipo di sopruso. Torturati, costretti a soffrire ogni tipo di dolore, da quello fisico a quello mentale e morale, sempre più massacrante, le persone si trascinano nel campo di concentramento fino a non provare più emozioni.

E’ così che l’autore di “Se questo è un uomo” descrive il proprio tempo trascorso nei lager. Il romanzo è estremamente toccante, perché al di là delle crude descrizioni di ciò che ha visto accadere ai propri compagni di sventura, al sangue versato, ai bisogni primari insoddisfatti, l’autore racconta di una coscienza che cerca di reagire.

Primo Levi racconta di come, in un luogo in cui la morte era una compagna di viaggio quasi desiderata, per quanto tremende erano le condizioni di vita, scopre un’incredibile forza che smuove una passione naturale e pura per la vita.

(leggi, nella tua antologia, il capitolo "Il canto di Ulisse").

Il coraggio, la necessità di non lasciarsi andare, un amore celato dalla sofferenza, ma pur sempre esistente, lo hanno indotto istintivamente a reagire, e questa reazione ha trovato significato nella scrittura, in parole da nascondere perché, nel campo, non era concesso neppure scrivere.

Primo Levi oltre a raccontarsi, cerca di dare una spiegazione, una parvenza di ragionamento per trovare la causa che ha spinto degli essere umani ad annullare la personalità, l’individualità e l’esistenza dei loro simili.

Non c’è nessuna forma di normalità dietro il dolore gratuito che viene inflitto, ed è questo il male radicale, quello perverso, che non può essere spiegato né gestito, ma che in qualche modo deve essere contenuto dentro il petto di chi ha subito l’esproprio della propria anima.

E quando il protagonista di “Se questo è un uomo” riesce a sopravvivere e ad uscire da Auschwitz con le proprie gambe, non riesce a lasciare la propria sofferenza dietro il filo spinato del campo di concentramento, ma se lo porta addosso, oltre, per tutto il tempo che gli resta da vivere.

Lo stile di Primo Levi è asciutto, descrittivo, molto diretto, tipico di chi ha la necessità di far arrivare immediatamente un concetto ai suoi lettori. E il pensiero di quest’uomo sopravvissuto alla più grande sciagura della storia d’Europa, resta impresso negli occhi e nel cuore di chiunque legge questo libro.
ATTIVITA'
Fate libere riflessioni.

martedì 26 maggio 2015

SECONDO DOPOGUERRA: L'ITALIA REPUBBLICANA

 
Il secondo dopoguerra in Italia: la rinascita
 

Alla fine della seconda guerra mondiale, l´Italia presentava un quadro sociale, politico ed economico molto complesso. Il  I Governo di Alcide De Gasperi fu l'ultimo governo del Regno d'Italia (nominato da Umberto II di Savoia allora Luogotenente del Re) e presentò le proprie dimissioni dopo il Referendum istituzionale del 1946 e contestualmente all'insediamento del Capo provvisorio dello Stato eletto dall'Assemblea Costituente. Restò in carica fino a quando il 14 luglio 1946. Il Capo provvisorio De Nicola nominò il II Governo De Gasperi. Tra l'esilio del Re, e l'insediamento di De Nicola, De Gasperi ebbe anche funzioni di Capo provvisorio dello Stato (13 giugno - 1º luglio).
Fu in carica dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946, per un totale di 216 giorni, ovvero 7 mesi e 4 giorni.
Uno dei nodi da sciogliere, senza il quale sarebbe stato impossibile avviare una vera ricostruzione, era stabilire quale tipo di regime politico avrebbe dovuto avere l´Italia dopo la guerra. Il V Governo De Gasperi segna la fine dell’unità resistenziale e l’avvio di una fase nuova nella vita politica italiana, quella del centrismo. De Gasperi decise di sottoporre a referendum popolare la scelta tra monarchia e repubblica e di affidare ad un´Assemblea Costituente elettiva il compito di elaborare una nuova Costituzione; le votazioni si tennero a suffragio universale maschile e femminile il 2 giugno 1946 e videro l´affermazione della Repubblica per due milioni di voti. Il re Umberto II, detto re di maggio perché regnò solo quel mese, fu così costretto a lasciare l´Italia e si recò in Portogallo. All´assemblea costituente si affermarono i grandi partiti di massa come la DC, con il 35,2% ; il PSI con il 20,7% e il PCI con il 18,9%. Fu così che il 28 giugno l´Assemblea Costituente elesse Enrico De Nicola come capo provvisorio dello Stato: era nata la Repubblica italiana.
 
Il momento peggiore del dopoguerra fu l´autunno-inverno 1946-47. Si rafforzarono infatti i legami tra DC e USA e tra PCI e Unione Sovietica; all´aumentare della tensione tra le due superpotenze, aumentavano i contrasti tra i due partiti politici italiani. Per fortuna però, questo non impedì che i lavori dell´Assemblea Costituente procedessero velocemente e fu così che dopo un lavoro di diciotto mesi, si giunse, il 1 gennaio del 1948, all´entrata in vigore della nuova Costituzione.
 
Con l´entrata in vigore della Costituzione i partiti furono chiamati a mobilitarsi per le elezioni che si tennero il 18 aprile del 1948 e che elessero il primo Parlamento della Repubblica. La campagna elettorale fu molto accesa e vide fronteggiarsi soprattutto i due grandi partiti di massa: la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi e il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. I risultati delle elezioni furono favorevoli alla DC che vinse ottenendo il 48% e la maggioranza assoluta, mentre i social comunisti non andarono oltre al 31%. Determinante per la vittoria della DC fu la paura del comunismo, che spinse l´elettorato di destra a votare in massa DC. Pur avendo la maggioranza De Gasperi formò un governo di più ampio respiro chiamando al governo anche alcuni partiti di centro. Nel frattempo fu eletto Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
L´area di sinistra però non si arrese e pur sconfitta alle elezioni si impegnò maggiormente nelle lotte sociali di operai e contadini. Nel frattempo un grave fatto di cronaca turbò il già delicato ordine sociale: il 14 luglio 1948, un fanatico di destra, sparò a Togliatti. Alla notizia l´intero paese si fermò e si temette un insurrezione generale che fu scongiurata grazia alla determinante azione di responsabilità dei dirigenti del PCI.
Il clima però continuava ad essere molto teso perché le agitazioni seguite all´attentato di Togliatti accentuarono l´anticomunismo e rafforzarono il governo che forte di un forte consenso e del rafforzarsi della guerra fredda fece in modo che nel 1949 l´Italia aderisse al Patto Atlantico e alla Nato.

Risolto il problema del posizionamento internazionale De Gasperi si dedicò a risolvere i problemi interni. Per risollevare l´economia favorì una politica economica liberista e consentì agli imprenditori di imporre agli operai dure condizioni di lavoro e bassi salari (favoriti dalla mancanza di lavoro e dall´enorme mano d´opera). Per il Sud venne avviata una riforma agraria e venne istituita la Cassa per gli intervento straordinari del Mezzogiorno. Se la seconda sortì qualche effetto, la portata della prima fu molto limitata in quanto i contadini, che pure avevano ricevuto una terra, erano privi di tutti gli altri mezzi necessari per condurre le loro attività. Per i contadini meridionali, ancora una volta, non restava che la dolorosa scelta dell´emigrazione che si indirizzò là dove le industrie si stavano concentrando: ovvero nel "triangolo industriale" Milano-Torino-Geova. Nelle fabbriche le condizioni di lavoro erano dure e i pregiudizi contro i meridionali erano forti e crudeli, ma la prospettiva di un lavoro facevano accettare i sacrifici.
 
Pur tra tutte queste difficoltà tra il 1958 e il 1963 in Italia si verificò il miracolo economico. La produzione industriale, che puntò decisamente sugli elettrodomestici la petrolchimica e la metalmeccanica, raddoppiò e le esportazioni crebbero del 14,5% all´anno. Finalmente c´erano beni di consumo abbondanti e disponibili per molti. Il tenore di vita degli Italiani migliorò.

La vecchia Italia, contadina, immobile, cedette il passo ad un´Italia industrializzata più moderna e più vicina ai grandi Stati d´Europa.

DOPOGUERRA E RICOSTRUZIONE

Dopoguerra e Ricostruzione - Rai Storia

venerdì 22 maggio 2015

CARLO LEVI

Troppo affrettatamente la critica mise in rilievo aspetti decadenti di Levi di Cristo si è fermato ad Eboli (scritto nel 1943, edito nel 1945) nato dall'esigenza del mondo lucano durante il soggiorno al confino. Levi aveva cultura europea e la sua storia interiore era quella dell'intellettuale democratico che crede nell'alleanza con la base popolare e vede il taglio compiuto dal fascismo. Civiltà, storia come progresso, valore intellettuale cadono, in conseguenza, per Levi il quale al rapporto razionale col mondo sostituisce il rapporto magico-misterioso con le cose:
  1. Non esiste distinzione fra l'uomo e l'animale, fra l'uomo e la pianta; e il sole, la pioggia, la foresta, la generazione e la morte, il mondo intero che ci circonda sono tutt'uno con la persona che vive come un albero, si radica al suolo, fiorisce, dà frutto e, a suo tempo, avvizzisce.
Ma alla luce dell'impegno sociale, dell'antifascismo, del meridionalismo, degli interessi europei esistenzialisti e psicanalitici di Levi l'approdo al mondo magico contadino vuole essere non una regressione bensì un modo di allargare l'esperienza nella cultura contadina mitica e misterica per cogliere, più profondamente che con la sola storia razionale, l'umanità segreta e confusa nella storia della condizione contadina.
Non si tratta, perciò, di fuga nell'indistinto ma di una purificazione nei valori autonomi, di una liberazione dalla decadenza borghese. La funzione catartica della civiltà contadina e la necessità di conservare le strutture non sono senza ambiguità dal punto di vista storico e culturale, ma quei valori contadini per Levi sono anche valori di contestazione («gli usi antichi e le loro credenze ereditate, estranei e ostili allo Stato e alla storia...»); e Levi dalla rappresentazione di quel mondo come fonte di palingenesi è venuto passando al convincimento del processo di emancipazione sostenuto dalle lotte contro le millenarie soggezioni.

sabato 16 maggio 2015

LA QUESTIONE TRIESTE. LE FOIBE

 
La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale“.
Legge 30 marzo 2004 n. 42


 
Con l'espressione massacri delle foibe, o spesso solo foibe, si intendono gli eccidi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, occorsi durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. Il nome deriva dai grandi inghiottitoi carsici dove furono gettati molti dei corpi delle vittime, che nella Venezia Giulia sono chiamati, appunto, "foibe".

Per estensione i termini "foibe" e il neologismo "infoibare" sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi.


Il fenomeno dei massacri delle foibe è da inquadrare storicamente nell'ambito della secolare disputa fra italiani e popoli slavi per il possesso delle terre dell'Adriatico orientale, nelle lotte intestine fra i diversi popoli che vivevano in quell'area e nelle grandi ondate epurative jugoslave del dopoguerra, che colpirono centinaia di migliaia di persone in un paese nel quale, con il crollo della dittatura fascista, andava imponendosi quella di stampo filosovietico, con mire sui territori di diversi paesi confinanti.
(Da Wikipedia)
 

STRAGE DI CEFALONIA

(dal sito dell'ANPI)
L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presidiava le isole di Cefalonia e agli ordini del generale Antonio Gandin, si trovò di fronte alla consueta alternativa: o arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o affrontare la resistenza armata, sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno. Tra il 9 e l’11 settembre si svolsero estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fece affluire sull’isola nuove truppe. L’11 settembre arrivò l’ultimatum tedesco, con l’intimazione a cedere le armi.
All’alba del 13 settembre batterie italiane aprirono il fuoco su due grossi pontoni da sbarco carichi di tedeschi. Barge rispose con un ulteriore ultimatum, che conteneva la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi. Gandin chiese allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. Tramite un referendum i soldati scelsero all’unanimità di resistere.
Il 15 settembre cominciò la battaglia che si protrasse sino al 22 settembre, con drastici interventi degli aerei Stukas che mitragliarono e bombardano le truppe italiane. I nostri soldati si difesero con coraggio, ma non ci fu scampo: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.
L’Acqui si dovette arrendere, la vendetta tedesca fu spietata e senza ragionevole giustificazione. Il Comando superiore tedesco ribadì che "a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer".
Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena; in una scuola 600 soldati italiani con i loro ufficiali furono falciati dal tiro delle mitragliatrici; 360 ufficiali furono uccisi a gruppetti nel cortile della casetta rossa. Questi gli ordini del generale Hubert Lanz, responsabile dell’eccidio: "Gli ufficiali che hanno combattuto contro le unità tedesche sono da fucilare con l’eccezione di: 1) fascisti, 2) ufficiali di origine germanica, 3) ufficiali medici, 4) cappellani. 5) fucilazioni fuori dalla città, nessuna apertura di fosse, divieto di accesso ai soldati tedeschi e alla popolazione civile. 6) nessuna fucilazione sull’isola, portarsi al largo e affondare i corpi in punti diversi dopo averli zavorrati".
Alla fine saranno 5.000 i soldati massacrati, 446 gli ufficiali; 3.000 superstiti, caricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi, scomparirono in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, la Divisione Acqui annientata.
Molti dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che fino all’abbandono tedesco di Cefalonia si mantenne in contatto con i partigiani greci e con la missione inglese operando azioni di sabotaggio e fornendo preziose informazioni agli alleati.


FOSSE ARDEATINE: IL MASSACRO. ROMA 1944 - Rai Storia

L'Eccidio delle Fosse Ardeatine

Il 10 giugno 1940 l’Italia fascista, guidata da Benito Mussolini , dichiarò guerra all’Inghilterra e alla Francia, entrando così nel secondo conflitto mondiale a fianco dell’Asse.
LA RESA DELL’ITALIA
Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del 1943, e il successivo voto di sfiducia contro Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, avvenuto il 25 dello stesso mese, il re Vittorio Emanuele III fece arrestare il dittatore e nominò un governo d’emergenza guidato dal Maresciallo Pietro Badoglio.
Dopo essere fuggito a Bari, sulla costa adriatica, e avervi stabilito la sede provvisoria del governo, il 3 Settembre 1943 Badoglio firmò un cessate-il-fuoco con le forze alleate e l’8 settembre successivo annunciò la resa.
LA REPUBBLICA DI SALÒ
Diversi giorni dopo che gli Italiani si erano arresi agli Alleati, un commando Tedesco agli ordini del Tenente Colonnello delle SS Otto Skorzeny liberò Mussolini e lo aiutò a raggiungere Salò, dove egli instaurò la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio di stampo fascista il cui quartier generale aveva sede nella cittadina sul lago di Garda. Nel frattempo, le forze armate tedesche occuparono gran parte del Nord Italia e continuarono a combattere contro gli Alleati e contro i partigiani della Resistenza insieme alle forze italiane rimaste fedeli al Fascismo, fino al momento della resa finale, il 2 maggio 1945.
L’ATTENTATO PARTIGIANO
Il 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.
I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira - un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria, poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia, nel 1943.
Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’attentato.
LA RAPPRESAGLIA
La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma - approvò la proposta.
Si racconta che quando a Hitler venne comunicata la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del massacro, dopo la guerra, testimoniarono come Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der Wehrmacht, or OKW).
Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo l’attentato.
LE VITTIME DELLE FOSSE ARDEATINE
Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.
Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.
Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 57 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici.
Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri.
L’ECCIDIO ALL’INTERNO DELLE FOSSE ARDEATINE
I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.
Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio.
Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.
I PROCESSI DEL DOPOGUERRA
Dopo la fine della guerra le autorità alleate processarono alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine.

venerdì 8 maggio 2015

NEOREALISMO TRA CINEMA E LETTERATURA


IL NEOREALISMO IN LETTERATURA
Il Neorealismo è un movimento culturale generato da un "clima etico morale" sviluppatosi nel secondo dopoguerra, tra il 1943 e il 1952. Esso, pur rifacendosi a modelli prevalentemente ottocenteschi (Verga soprattutto), è caratterizzato dalla necessità, da parte degli intellettuali di sinistra, antifascisti (artisti, letterati, registi...), di un ritorno alla realtà, dopo il soggettivismo e l'intimismo che avevano caratterizzato gli anni Trenta. Il riferimento è la realtà della guerra, della Resistenza e del dopoguerra, con la sua miseria e con le sue lotte politiche. L' "Andare verso il popolo" sarà l'impegno dei letterati e dei registi del cinema neorealista, nella convinzione che siano i fatti stessi a caricarsi di significato etico ed estetico. L'impegno culturale e sociale darà spazio a testimonianze dirette e alle esperienze autobiografiche, come, per esempio quelle di guerra e di prigionia. La nuova narrativa di influenza americana (Hemingway, per esempio) assume caratteristiche del "parlato", con un'attenzione anche alle diverse caratteristiche regionali, che mira a conferire autenticità alla narrazione. Tra gli autori più importanti del Neorealismo ricordiamo: Vittorini, Pavese, Fenoglio, Moravia, Pratolini, Cassola, Alvaro, Calvino (per la sua produzione giovanile), Primo Levi e Carlo Levi.
Per la produzione cinematografica si possono citare i capolavori di Vittorio De Sica, Ladri di biciclette (1948), Umberto D (1952) e di Roberto Rossellini Roma città aperta (1945). Ma sono tante le opere e i film di grande importanza che testimoniano la miseria e la povertà a cui ha condotto la dittatura fascista!


Il Neorealismo, tuttavia, non è solo denuncia, è anche impegno di ricostruzione materiale e morale del paese.